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Roma, 28 settembre 2015

TAVOLA ROTONDA

Nuove Proposte Concrete Per Rilanciare L’Economia e l’Occupazione

Roma, 28 settembre 2015

Università di Roma 1 – La Sapienza (Aula multimediale del Rettorato – Piazzale Aldo Moro, 1)

 

FELICE ROBERTO PIZZUTI

Professore Ordinario di Politica Economica, Sapienza Università di Roma

LE PROSPETTIVE DELLA CRISI IN ITALIA E ALCUNE INDICAZIONI IN CAMPO PREVIDENZIALE

(Testo in formato PDF)

 1. Introduzione

Le prospettive dell’economia italiana vanno necessariamente inquadrate nell’ambito di quelle dell’economia globale e della costruzione europea;

Per questioni di tempo i richiami alla condizione della crisi globale e ai vincoli posti dalle politiche dell’Unione non potranno che essere brevi e schematici.

Passerò poi ad analizzare le specificità dell’economia italiana, i margini esistenti per le autorità nazionali e le scelte che il governo italiano sta facendo e che potrebbe fare.

Infine farò alcune valutazioni sull’ipotesi in discussione d’introdurre elementi di flessibilità nell’età di pensionamento

 2. Le prospettive della crisi globale

Da quando la crisi è iniziata – tra il 2007e il 2008 – più volte alcuni hanno pensato che stesse volgendo al termine, ma le speranze sono andate sistematicamente deluse.

Il fatto è che le motivazioni di fondo della crisi non sono state rimosse, anche perché la visione economica che molto ha contribuito a determinarla è ancora quella cui si fa riferimento per cercare di superarla. Si possono fare alcuni esempi[1].

  • L’aumento delle diseguaglianze distributive iniziato negli anni ’80 nella generalità delle economie occidentali e il calo della quota dei salari sul Pil che hanno indebolito strutturalmente la domanda, sono tendenze ancora in atto; anzi si sono accentuate con la crisi.
  • Le soluzioni per cercare di sostenere la domanda, come la forte creazione di redditi finanziari, hanno solo reso più instabile l’intero sistema economico, generando bolle e poi la loro esplosione.
  • La riduzione della dinamica della spesa pubblica e le politiche di austerità adottate per superare la crisi hanno ulteriormente indebolito la domanda e continuano a farlo mentre sarebbe necessario il contrario.
  • Anche le bolle finanziarie continuano ad essere alimentate.; l’aver affidato alla sola politica monetaria il compito di stimolare la crescita sta facendo si che le pur opportune misure non convenzionali come le politiche di Quantitative Easing, in mancanza di stimoli reali alla produzione e in presenza di trappola della liquidità, si traducono in un forte aumento di investimenti finanziari speculativi che alimentano fittiziamente le quotazioni borsistiche.
  • La perdurante mancanza di un coordinamento sovranazionale delle politiche economiche nazionali conferma lo squilibrio generato dalla globalizzazione dei mercati che sono diventati autonomi dalle istituzioni, perdendo gli effetti positivi e stabilizzanti sulla crescita derivanti dall’interazione stato-mercato.

 

Ma alle cause della crisi esplosa nel 2008 se ne stanno aggiungendo di nuove che acuiscono le carenze della domanda.

La dinamica del commercio internazionale si sta attenuando.

I paesi emergenti, che nei primi anni della crisi globale sembravano esserne rimaste fuori, vi sono stati progressivamente risucchiati anch’essi. Dal 2007 alle previsioni per il 2015, la crescita annua del Pil è passata dal 10% al 3% per l’India, dal 6% all’1,5% per il Brasile, dall’8,5% allo zero per la Russia.

Rimaneva la Cina, che con i suoi elevati volumi di crescita del Pil e del commercio con in paesi occidentali ne ha finora attenuato i problemi. Ma adesso anche in quel paese sono evidenti i segnali di un cambiamento rispetto allo sviluppo travolgente degli ultimi anni:

  • dal 14% di crescita del Pil nel 2007, le previsioni per il 2015 sono anche inferiori al 5%;
  • le esportazioni cinesi nel 2014 hanno registrato un calo fino al 26% rispetto al 2008 e sono diminuite del 7,3% nei primi sette mesi del 2015).

In Cina emergono i limiti di un modello che, pur molto diverso da quello dominante nei paesi capitalistici occidentali nell’ultimo trentennio, ha in comune il contenimento dei salari e la carenza dei consumi interni (pur se a livelli molto più bassi). In quel paese c’è stata una accumulazione forzosa, alimentata con una distribuzione favorevole ai profitti (pubblici e privati) e con il loro reinvestimento in capacità e innovazione produttiva, spingendo gli stessi redditi da lavoro verso acquisti in Borsa per finanziare le imprese e lo stato (il debito pubblico cinese è pari al 280% del Pil).

Tuttavia, le persistenti cause di crisi dei paesi occidentali, non solo hanno reso insufficienti gli stimoli provenienti dallo sviluppo cinese, ma – viceversa – hanno finito per accentuare i suoi squilibri, contribuendo a frenarlo. Adesso la decelerazione cinese restituisce alle economie occidentali gli effetti negativi sulla crescita da essi ricevuti e sempre più si può parlare di crisi globale

I segnali di ripresa che vengono dagli Usa non sono affatto certi; ne è prova la posizione attendista della sua banca centrale, la FED, sull’aumento dei tassi, almeno fino a dicembre se non addirittura fino a marzo.

Il FMI e la BCE hanno da poco rivisto al ribasso le previsioni di crescita, rispettivamente, dell’intera economia mondiale e dell’Unione europea.

 

 3. Le prospettive dell’economia italiana

In Italia il Governo, nel suo recente aggiornamento del DEF ha rivisto leggermente al rialzo le previsioni di crescita per il 2015 (da 0,7% a 0,9%) e per il 2016 (da 1,4% a 1,6%), ma siamo al di sotto della pur bassa e ulteriormente ridotta crescita media prevista per la Zona Euro (1,4% per il 2015 e 1,7% per il 2016.

Il punto è che, nell’ambito di una economia della Zona euro resa meno reattiva dalle politiche dell’austerità prevalenti nell’UE, in Italia si aggiungono problemi di più lunga data per affrontare i quali non si intravedono segni di svolta nemmeno nei margini di autonomia che pure esistono per le politiche nazionali.

Nel periodo della crisi, dal 2007 al 2014, mentre nella Zona Euro il Pil è rimasto sostanzialmente fermo (a differenza degli USA dove è cresciuto di circa 8 punti), in Italia è diminuito di circa 9 punti. Il tasso di disoccupazione, mentre nell’area valutaria comune è cresciuto di 3,7 punti percentuali, nel nostro paese è aumentato di quasi 7 punti. La nostra produzione industriale si è ridotta di circa un quarto, tornando ai valori di circa trenta anni fa. Parallelamente, nel nostro paese gli indicatori della diseguaglianza sono peggiorati in misura maggiore che nel resto d’Europa:

  • la riduzione della quota dei salari sul Pil si è accentuata più che nella media dell’UE a 15 paesi (-4,9 punti contro – 3,0, dal 1991 al 2013);
  • negli anni della crisi, i peggioramenti nella distribuzione del reddito e della ricchezza sono stati tra i più rilevanti;
  • il divario negativo della nostra spesa sociale pro capite rispetto alla media europea è continuamente e sensibilmente aumentato: fatto pari a 100 il valore medio dell’EU a 15 paesi, quello italiano è sceso da 90,7 nel 1998 a 74,8 nel 2012.

 

Le peggiori performance dell’economia italiana negli anni della “grande recessione”, pur risentendo particolarmente delle politiche d’austerità dominanti nell’UE, derivano dalla peculiare tendenza al “declino” della sua struttura produttiva iniziata nella prima metà dalla degli anni ’90 del secolo scorso.

Ancora nella seconda metà degli anni ’90 il Pil pro capite italiano era superiore a quello dei paesi che poi sarebbero entrati nell’Area Euro (nel 1995 lo era di quasi il 3%). Dal 1997 il divario è diventato negativo ed è cresciuto progressivamente; nel l 2014 il Pil pro capite medio della Zona Euro ha superato quello italiano del 15,6%.

 

Tra gli elementi che hanno determinato questa tendenza negativa vanno considerate le modifiche intervenute nel contesto economico-produttivo internazionale e le difficoltà di adattamento del nostro sistema economico (e non solo). Queste vanno ricondotte alle sue caratteristiche quali:

  • la struttura produttiva fatta prevalentemente di piccole aziende, spesso a conduzione familiare, non quotate in Borsa, con limitata disponibilità di capitali e problemi di finanziamento in un sistema incentrato quasi esclusivamente sul sistema bancario;
  • le difficoltà e comunque la bassa propensione ad effettuare investimenti innovativi;
  • la specializzazione produttiva sempre più sbilanciata verso settori “maturi” e ad alta intensità di lavoro non specializzato, nei quali è cresciuta la concorrenza dei produttori delle economie emergenti;
  • la diffusione dell’evasione fiscale e un sistema corruttivo che pregiudicano la funzionalità della Pubblica Amministrazione e la sua capacità di potenziare e anche solo mantenere le infrastrutture esistenti. Tra le insufficienze infrastrutture vanno considerate sia quelle immediatamente produttive sia quelle di tipo sociale – come il sistema di welfare state che è sempre meno in grado di svolgere il suo compito di offrire una rete di sicurezza capace di favorire la disponibilità al rischio implicito nell’innovazione da parte delle imprese e dei lavoratori.

Anche le prospettive per il futuro non sono incoraggianti:

  • si è ridotta la già bassa spesa per l’istruzione che è scesa all’ultimo posto nella graduatoria europea (4,6% del Pil rispetto al 7,9% della Danimarca, il 6,4% del Regno Unito, il 6,1% della Francia, il 5,5% di Spagna e Portogallo, il 5,1% della Germania);
  • la spesa per l’Università e la ricerca è ancora più lontana dalla media europea (1% del Pil contro l’1,5%);
  • La nostra spesa sanitaria in rapporto al Pil è pari al 7% contro l’8,7% della media dell’EU a 15; la nostra spesa procapite è solo il 74% di quella media dell’intera Unione europea. Permane invece un’organizzazione regionale causa di prestazioni disomogenee anche per i livelli essenziali che contraddice il dettato costituzionale.
  • Tuttavia continuano a prospettarsi tagli alle prestazioni che stimolano il ricorso alla meno efficiente sanità privata che già assorbe una quota della spesa sanitaria complessiva superiore a quella della media europea.

 

L’interazione tra i mutamenti esterni e le carenze interne ha spinto il nostro sistema produttivo a difendere la competitiva essenzialmente sul piano dei prezzi, cioè riducendo il costo e la specializzazione del lavoro impiegato, aumentando le sua flessibilità d’impiego anche sul piano giuridico[2] e ribaltando sui lavoratori la crescente instabilità dei mercati.

Invece si è fatto poco o nulla per aumentare la competitività qualitativa che richiede l’aumento degli investimenti innovativi o comunque idonei ad aumentare la produttività.

Tutto ciò ha alimentato un circolo perverso che ha prodotto un ulteriore slittamento del nostro sistema produttivo nella divisione internazionale del lavoro e nella classifica della competitività di qualità, accentuando il “declino” già in atto dall’inizio degli anni ’90.

La curva del nostro prodotto potenziale stimata dall’Ocse è stata sensibilmente ridimensionata: da una tendenza valutata intorno all’1,4% l’anno prima della crisi, alla previsione di sostanziale stazionarietà effettuata nel 2014[3].

Purtroppo nemmeno nelle politiche attuali si intravedono mutamenti capaci di invertire questa tendenza:

  • Le cosiddette riforme strutturali continuano ad essere guidate dall’obiettivo di ridurre il costo del lavoro e aumentarne la flessibilità,
  • Istruzione e ricerca continuano ad essere penalizzate da interventi tesi a migliorare gli equilibri finanziari
  • Le istituzioni del welfare continuano ad essere considerate voci di costo e non d’investimento e, dunque, diventano oggetto di spending review

 

Sull’opportunità d’intervenire nel settore pensionistico 

Alcune considerazioni specifiche possono essere dedicate al sistema pensionistico e alle ipotesi in discussione di reintrodurre elementi di flessibilità per l’età di pensionamento.

Le preoccupazioni che introdurre elementi di flessibilità riguardo all’età del collocamento a riposo abbia conseguenze finanziarie immediate sul bilancio pubblico sono fondate: ogni anticipazione del pensionamento implica un corrispondente aumento della spesa pubblica nel breve periodo; solo successivamente si avvertirebbero i risparmi derivanti dal minor importo delle prestazioni interessate.

Tuttavia, ancora una volta, il punto che va considerato non è solo quello finanziario, ma se introdurre elementi di flessibilità sia utile dal punto di vista economico e sociale.

La flessibilità e la sua fruizione per anticipare il pensionamento avrebbero diversi effetti positivi:

  • In primo luogo, si restituirebbe agli anziani la possibilità di attuare i loro programmi di vita improvvisamente bloccati dalla legge Fornero consentendo di lasciare il lavoro a persone che certamente non sono molto motivate.
  • Si creerebbero corrispondenti posti di lavoro per i giovani che invece vivono con frustrazione la difficoltà d’iniziare la loro vita lavorativa.
  • Si ridurrebbe l’età media della forza lavoro occupata, con effetti positivi sulla produttività e il costo del lavoro.
  • La disponibilità di lavoratori più giovani, motivati e istruiti avrebbe effetti positivi pure sulla capacità innovativa del nostro sistema produttivo.
  • La flessibilità dell’età di pensionamento attenuerebbe anche il problema degli esodati, una delle incredibili conseguenze della legge Fornero

Gli stessi effetti finanziari di breve periodo sul bilancio pubblico andrebbero poi valutati anche in rapporto a due circostanze

  • La prima, di carattere economico, è che a fronte di aumento nell’immediato della spesa pensionistica (che sarebbe recuperata in pochi anni), e dell’aumento dell’occupazione giovanile si avrebbe uno stimolo positivo alla domanda che è quanto più necessita attualmente al nostro sistema economico
  • La seconda, di carattere etico e distributivo, è che, fin dal 1996 – cioè subito dopo le riforme Amato del 1992 e Dini del 1995 – il saldo tra le entrate contributive e le uscite pensionistiche previdenziali nette sono consistentemente positive. Nel 2013 – l’ultimo anno di cui si hanno i dati – è stato di 21 miliardi di euro (l’equivalente di una legge finanziaria). Continuare ad attingere al sistema pensionistico come un bancomat per sostenere il bilancio pubblico implica una scelta economica, sociale e politica con effetti controproducenti a tutti e tre i livelli.

Pur in presenza di una consolidata tendenza all’invecchiamento demografico che fa aumentare l’indice di dipendenza degli anziani, cioè il rapporto tra anziani e popolazione attiva (Fig. 1), l’andamento previsto del rapporto tra spesa pensionistica e Pil non fa registrare nessuna “gobba”, ma – invece – una sua costante diminuzione (Fig. 2).

La combinazione di queste due tendenze genera un fenomeno cui occorre fare molta attenzione economica, sociale e politica: La pensione media IVS, rapportata sia al salario medio (linea continua) sia al Pil procapite (linea tratteggiata) è in netto calo per il prossimo ventennio (Fig. 3).

Il rapporto tra la pensione media e il salario medio che oggi è del 45%, scenderà progressivamente fino a raggiungere il 33% nel tra vent’anni.

Si sta dunque creando un divario crescente tra la partecipazione al Pil degli attivi e quella dei pensionati.

Il problema strutturale dell’attuale assetto del sistema pensionistico è che sta creando una vera e propria bomba sociale implicita nella convinzione sempre più giustificata e percepita nell’opinione pubblica che in pochi anni la maggioranza dei pensionati sarà costituita da poveri.

 

Il modo in cui l’Italia sta reagendo alla crisi

  • non è solo quello di accentuare le carenze strutturali del nostro sistema produttivo, cioè puntare ancora
    • sugli equilibri finanziari di breve periodo,
    • la riduzione del costo del lavoro
    • e la competitività di prezzo
    • anziché stimolare la crescita e l’innovazione
  • ma sta anche intaccando la tenuta del patto sociale tra le generazioni i cui effetti potrebbero riflettersi in un peggioramento organico e duraturo delle condizioni di convivenza e della indispensabile collaborazione tra le generazioni nella trasmissione delle conoscenze, a discapito non solo degli equilibri economici ma anche di quelli sociali e civili.

L’impressione è che queste problematiche non siano al centro dell’attenzione degli opinion makers e dei politici, i quali sembrano pensare ad altro rispetto ai problemi della transizione storica in corso aperta dalla Grande recessione, senza rendersi conto, come avvertiva Keynes, che “sono di solito schiavi di qualche economista defunto”.

 

Figura 1 – Evoluzione dell’indice di dipendenza degli anziani – 2014-2050

151010 figura 1 ingrandito 150

Figura 2 – Evoluzione del rapporto tra spesa IVS e PIL – 2014-2050

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Figura 3– Rapporto tra importo medio IVS e salario/PIL p.c. – 2014-2050

 

151010 Pizzuti figura 3 ingrandito 150

 

[1] Per un’analisi più dettagliata della crisi e delle sue connessioni con il welfare, si rimanda a Felice Roberto Pizzuti (a cura di); il Rapporto sullo stato sociale 2015, La grande recessione e il welfare state, Edizioni Simone, Napoli, 2015.

[2] L’indice quantitativo della legislazione di protezione dell’occupazione EPL (employment protection legislation) elaborato dall’OCSE con riferimento ai lavoratori con contratti a tempo indeterminato segnala che nel 2013 – l’ultimo anno disponibile, prima quindi delle ulteriori misure di flessibilità introdotte dal recente Jobs Act – l’Italia aveva un valore in linea con quello medio dell’Eurozona e inferiore a quello di paesi come Francia, Germania, Belgio e Olanda.

[3] Cfr. il par. 2.10

 

 

 

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